Tecniche di esposizione. L’attualità di Walter Benjamin – Adriano Ercolani

Se c’è un saggio novecentesco dalla attualità impressionante sul quale continuare a interrogarsi con urgenza è senza dubbio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica di Walter Benjamin.

Un testo relativamente breve ma densissimo di riflessioni tuttora illuminanti, dalla vita editoriale complessa e frastagliata: ne esistono cinque versioni(dal settembre 1935 all’agosto 1936, poi corrette e integrate fino al 1939-40) delle quali quattro in tedesco e una in francese, l’unica pubblicata in vita dell’autore sulla rivista della Scuola di Francoforte, tradotta dal giovane Pierre Klossowski, ma rinnegata da Benjamin per i tagli operati sul testo, senza il suo consenso, da Max Horkheimer.

L’ultima stesura apparirà postuma solo nel ’55. Il testo è cruciale per molti motivi. Innanzitutto, per aver colto immediatamente l’influenza della tecnologia sull’arte e aver riflettuto con originale lucidità sul tema. Un’influenza (la riproducibilità) che modifica non solo la fruizione da parte del pubblico e la potenziale strumentalizzazione da parte del potere politico, ma lo status stesso dell’opera d’arte.

Soprattutto, questo processo induce allo smarrimento dell’”aura” (concetto mutuato da Baudelaire), ovvero del valore sacrale dell’opera, rimosso completamente nell’era della cultura di massa.

Benjamin evidenzia il passaggio dal valore religioso al valore politico dell’opera d’arte. Una relazione tra arte e politica, secondo Benjamin, di segno opposto nei totalitarismi contemporanei alla stesura del saggio: mentre il fascismo estetizza la politica,  il comunismo politicizza l’arte. Questa è chiaramente solo una sintesi di una brutalità imbarazzante di un saggio dalle molteplici possibilità di lettura.

Ora, per Quodlibet studio, l’opera viene riproposta in italiano, corredata da un importante e dettagliato apparato critico (dodici densi saggi introduttivi) a cura di Marina Montanelli e Massimo Palma. L’importanza di questa edizione è nel proporre in italiano per la prima volta la prima versione versione dell’opera, fino a pochi anni fa inedita anche in Germania.

Come scrive Fabrizio Desideri, sottolineando nel primo saggio di commento della nuova edizione l’attualità dell’opera, “la diagnosi della realtà si fa telescopage del futuro”. Abbiamo conversato su questo punto con i curatori, in occasione della prossima presentazione romana del libro, prevista all’Istituto Italiano di Studi Germanici a Villa Sciarra per il 31 Gennaio alle ore 17.

Qual è la necessità di questa nuova edizione di uno dei saggi più importanti del Novecento? Perché proprio ora?

Lo spunto – prima dei seminari dell’Associazione Walter Benjamin, poi di questo volume – è stato la riedizione tedesca de L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnicaall’interno della nuova raccolta critica degli scritti di Benjamin (i Werke und Nachlaß), che ha portato un’aria radicalmente nuova su uno dei saggi più citati del Novecento. Le novità sul piano filologico sono molte. La più importante è la fissazione, per la prima volta, di cinque differenti stesure del saggio. L’edizione critica tedesca ha reso infatti disponibile la primissima versione del testo, scritta nel settembre del 1935, incompiuta, ma ben riconoscibile nei suoi tratti dirompenti. Accanto ai commenti di molti specialisti, col nostro volume abbiamo voluto offrire ai lettori italiani la possibilità di leggere questa prima redazione. E di chiarire, con una Nota critico-filologica, la complessa storia editoriale di un testo che Benjamin non pubblicò mai, se non in francese e con molte censure impostegli da Max Horkheimer.

Del resto, l’attualità dell’opera è talmente evidente da far emergere, senza enfasi, il carattere profetico dell’analisi di Benjamin. Siete d’accordo?

Mai come in questo momento, il carattere profetico dell’Opera d’arte appare lampante. Non sono soltanto i social media e l’ulteriore sviluppo tecnologico a far scoccare una nuova “ora della sua leggibilità”, ma anche i modi di produrre contemporanei, nonché le forme di vita a essi corrispondenti. Benjamin ci ha infatti consegnato una lettura della tecnica eminentemente politica, nella quale rivoluzione e modificazione percettiva sono inseparabili. I margini d’azione dischiusi dalla serialità e dalla riproduzione tecnica non definiscono uno spazio neutro, al contrario, sono il campo di battaglia dello scontro col capitale e le sue forme di sfruttamento. Le nuove “innervazioni collettive”, così le chiamava, degli organi sensoriali possono dischiudere processi di liberazione potentissimi – a partire dalla preminenza della cooperazione, dell’orizzontalità, delle connessioni – oppure essere catturati nei circuiti della valorizzazione capitalistica. Come suggerisce Paolo Virno, il capitalismo ha ormai da tempo messo a valore quello stesso fenomeno che Benjamin ha chiamato “povertà di esperienza”: formazione permanente, precarietà, intermittenza lavorativa, sono alcuni dei modi con cui si trasforma in profitto un tratto propriamente antropologico, la capacità umana di destreggiarsi nell’assenza di solide abitudini, di costruirne sempre da capo di nuove. È a partire da qui che va ripensata oggi la questione della politicizzazione dell’arte, del “rinnovamento dell’umanità” a partire dalla sua stessa crisi.

Ho sempre ritenuto cruciale la relazione saggio con l’arte contemporanea, soprattutto con la cosiddetta pop art. Si tratta di un tema che ritengo fondamentale per la cultura contemporanea. Secondo voi, Andy Warhol ha compiuto la profezia di Benjamin come erede consapevole o come manifestazione del “male” culturale annunciato nel saggio?

Warhol è la variazione diffusa di una compiuta strategia di estetizzazione che non rima affatto con “più democrazia” – nonostante le celebrazioni dell’uguaglianza dell’uomo qualunque con Liz Taylor (entrambi bevono Coca Cola). Ma Warhol, il campione della pop art come arte della superficie, è anche il custode di un nocciolo irriducibile alla rappresentazione. L’estremo valore cultuale in Warhol è quello di un nulla esistenziale irrappresentabile. Certo, ogni suo film, ogni serigrafia è la traccia di un’esposizione al quadrato. Espongo l’esponibile, estetizzo la merce, mercifico l’oggetto già estetizzato – Marilyn, ma anche la confezione di fagioli. E tuttavia il segreto custodito nel mio rapporto con l’oggetto è rimandato completamente al singolo. E il singolo, pur ipersensibile, è rappresentato come inetto alla rappresentazione. Il suo Popism termina con un micidiale “Poscritto” che elenca tutti i morti della “scena” apparentemente imperdibile della Factory anni Sessanta. Il segreto del “successo” è un rapporto ineffabile con la morte. Una religione della morte, forse.

Presente è nell’opera il riferimento al tema gnostico della Caduta. Del resto parliamo di un intellettuale che ha avuto non solo come amco ma come interlocutore privilegiato Gershom Scholem, padre degli studi sulla Qabbalah nel Novecento.

Il tasso di gnosticismo in Benjamin è un tema che ha affascinato molti, spesso a partire da una lettura di Jacob Taubes (che con Scholem non mancò di litigare). Ma chi legge il saggio sull’opera d’arte, a dispetto, o no?, delle riserve di Brecht («tutto è mistica in questa postura antimistica», appuntava nel suo Diario di lavoro) può trarne l’impressione di un nesso sistematico con la teoria dei nomi del primo Benjamin, influenzata dal dialogo con Scholem. Quando, dopo la Caduta, nome e cosa non coincidono più, comincia l’odissea del significato, l’epopea del lutto dei viventi, ma anche l’ascesa di una materia sempre percepibile e dicibile, la cui capacità comunicativa però si perde in una continua rappresentazione di cui l’intelletto umano è il regista. Nell’Opera d’arte avviene la scoperta che la caduta dell’artistico in sé e per sé, l’uscita dell’arte dal cultuale, è apertura di uno spazio di possibilità, che è politicizzabile.

Ho sempre trovato cruciale la polemica sul “sacro” che ha visto protagonisti Benjamin e Bataille. Trovate che sia ancora attuale?

La polemica risale a una presunta frase di Benjamin alla fine di una seduta del Collège de sociologie, l’accolita di sperimentatori di un “sacro” sinistro (anti-autoritario, trasgressivo, alla ricerca di una ‘comune eterogeneità’ contro l’omologazione utilitaria), guidata da Bataille e Caillois. Benjamin avrebbe detto: “Voi lavorate per il fascismo”. Klossowski, che tradusse il saggio sull’Opera d’arte in francese, trent’anni dopo rivelò che aveva detto: “Lavorate per un’estetica prefascista”. Così espressa, la provocazione, legata a una critica dell’uso del mito politico, col nesso diretto all’estetica, ha una sua attualità. Il paradigma dell’estetizzazione della politica non ha fatto che propagarsi. La fascinazione intellettuale per un sacro ‘destro’, che guida un fruitore infantile, beato nel suo nulla d’esperienza, è ben attiva. Il meccanismo di estetizzazione è coestensivo alla struttura del capitalismo odierno, alle nostre pratiche di vita: la politica resa consumabile, la finzione giustapposta alla storia, l’aura disegnata sulla violenza esposta, sono altrettanti atti di (an)estetizzazione. E suscettibili d’una deriva fascista.

L’ultima domanda è forse la più drammaticamente urgente: come ripristinare l’aura?

Ma è davvero necessario ripristinare l’aura? Anche in questo caso è fondamentale seguire le indicazioni di Benjamin, non per fedeltà ideologica al suo dettato, ma perché proficue per l’epoca presente. Il potenziale rivoluzionario che la riproducibilità tecnica ha portato alla luce ha a che fare proprio con la distruzione della dimensione auratica dell’opera, del suo tratto rituale, legato cioè al contesto sacro e religioso. La messa in crisi del concetto stesso di ‘originale’ e ‘originalità’ ha reso possibile la riemersione del tratto ludico dell’esperienza estetica in senso ampio. Tratto – come sottolineato anche da Giorgio Agamben – fortemente profanatorio, capace di restituire alla sfera umana dell’uso ciò che prima era separato e inaccessibile nella propria lontananza cultuale. È il capitalismo maturo, per Benjamin, ad aver ripristinato l’aura nella forma della merce, della nouveauté a tutti costi, dietro cui si nasconde il volto del “sempre uguale”. Allora se proprio si vuole pensare a un eventuale “ripristino dell’aura”, forse l’unico possibile è quello a cui Benjamin allude in un appunto dove ne dà una nuova definizione: aura è anche capacità di levare lo sguardo. Lo sguardo a cui Benjamin pensa è quello con cui l’oppresso risponde allo sguardo dell’oppressore. È lo sguardo di chi si è svegliato da ogni sogno, in cui ogni lontananza è cancellata.