«L’arretratezza dell’ Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica…». Impietoso e inappellabile era il giudizio che Giulio Schiavoni esprimeva in anni ormai lontani sul lavoro benjaminiano forse più noto, sebbene soprattutto in virtù di una lunga tradizione di riporto. Concorreva al formarsi di tale convinzione l’idea che in quelle pagine trovasse espressione l’adesione di Benjamin a quell’utopia propria di una socializzazione degli strumenti percettivi e tecnologici condivisa, a cavaliere fra anni Venti e Trenta, da numerosi movimenti artistici e da figure prime del panorama intellettuale come Lukács e Brecht. Era come se l’esaltazione per la neonata “civiltà delle immagini” della quale fu teatro la Germania del primo dopoguerra dovesse in qualche misura avere nel saggio benjaminiano la propria consacrazione ideologica e insieme la propria resa al razionalismo esistenziale di Max Bense. Di fronte all’idea – centrale nel saggio sull’Opera d’arte – di una democratizzazione dell’arte resa possibile dai mezzi di comunicazione di massa e in special modo dal cinema, lo scetticismo se non la contrarietà mostrati dalla Scuola di Francoforte si rivelavano, nella ricezione italiana del lavoro benjaminiano, decisamente persistenti, tanto da ridurre al silenzio o quasi le poche voci dissonanti, come quella di un giovane Umberto Eco, pugnace sostenitore della “scommessa sull’avvenire” della società dello spettacolo lanciata da Benjamin contro i “gridi di indignazione dei misoneisti”. Punto di vista, questo, a sua volta forse troppo influenzato dalle suggestioni di Guy Debord per riuscire a riscattare efficacemente la censura di “indistinzione fra aintindividualismo neocapitalista ed antindividualismo comunista” con la quale si tacciavano – nel prefare la prima edizione italiana – le riflessioni esposte nell’Opera d’arte.
D’altra parte, la pretesa di riuscire ad aver ragione del discorso condotto da Benjamin, qui come in altri luoghi dei suoi scritti, ricorrendo a una formula ideologicamente connotata o anche solo smagliante per arguzia appare tentativo miope. Se si considera l’Opera d’arte, occorre in particolare constatare un fenomeno del tutto caratteristico: quello attestato non soltanto da un imponente work in progress “di cui esistono solo versioni più o meno provvisorie”, sempre “in attesa di revisione ed ampliamento”, ma soprattutto – come ha rilevato Fabrizio Desideri nel primo dei saggi raccolti in Tecniche d’esposizione – da una performatività per la quale il testo dice ciò che fa. Nel porre al centro del saggio la nozione di riproducibilità tecnica e nell’inficiare al contempo qualsiasi possibilità di fornirne un’edizione ecdotica, Benjamin sembra infatti voler dare icastica dimostrazione dei propri assunti. La tensione che tende a stabilirsi fra la serialità delle copie dell’opera per principio riproducibile e il suo testo originale viene ad essere sostituita da una serie molteplice di variazioni senza matrice. Solo in tal modo parrebbe del resto potersi sfiorare l’ambito dominato dall’“autenticità”, “sottratto alla riproducibilità tecnica” e refrattario a ogni forma di asseverazione critica. In esso – sostiene Francesco Valagussa – si trova una sorta di “limite trascendentale” che comprova la prossimità del pensiero di Benjamin all’estetica dell’idealismo tedesco; una prossimità che rischia tuttavia, se accentuata oltremisura, di lasciare negletta la funzione che nell’Opera d’arte gioca la “politica”.
Come in modo molto convincente dimostrano i saggi contenuti nella seconda parte dell’antologia curata con scrupolo e passione da Marina Montanelli e Massimo Palma, la preclusione che Benjamin nutre verso ogni forma di estetizzazione si estende fino a ricomprendere quella “decadentissima ed appassionata reazione della spirito di fronte alla incipiente società di massa” che, nata nel clima ottocentesco de l’art pour l’art e sviluppatasi nei primi lustri del Novecento con Stefan George, era rimasta vittima di un “equivoco profetico”: il quale, soprattutto nell’atmosfera avvelenata della Germania degli anni Trenta (l’ha rilevato pure Maurizio Serra nell’Esteta armato, il Mulino 1990; La Finestra 2015), si era rapidamente trasformato in un “millenarismo pronto a marciare”.
Alle estenuate estetiche totalitarie Benjamin avrebbe voluto contrapporre un “uomo nuovo”, reso tale dagli apparati tecnici e dalla loro diffusione condivisa. In essi e in special modo nei film – osserva Alessandra Campo – egli ravvisa la possibilità di rimettere sempre mano alle configurazioni di senso secondo principi mai ipostatizzabili. Si trae così l’impressione che dal “libero esercizio del fare tecnico” possa nascere, per Benjamin, una “democratizzazione” senza compromessi. Non per questo si dovrà però credere che Benjamin indulga in una considerazione dell’industria dei media universali che trascuri di avvertire, accanto alle condizioni di “esponibilità” e “accessibilità” rese possibili dalla “ripetizione” delle moderne tecniche di riproduzione, l’incombente pericolo di un’uniformità preclusiva di ogni vera attitudine critica come di ogni effettiva autonomia da una forma, sia pure indiretta, di “disciplinamento”. Si osserverebbe in tal modo il trascorrere degli effetti della riproducibilità tecnica dal piano estetico a quello antropologico.